La sua pittura è composta dai capitoli di un romanzo visivo che si sviluppa secondo un articolato intreccio di temi e argomenti, in uno svolgimento poetico e sapienziale connesso a una valenza ritmica moderna, in sintonia con lo sviluppo di un’intuizione immaginaria, sempre sospesa nei continui cambiamenti che si innestano gli uni sugli altri, ma poi trovano un loro equilibrio. Tutto diventa più piano, più lento, e si presta meglio a una visibilità tutta mediata, che permette la sera del giudizio e il giudizio della sera. Sto parlando del percorso umano, culturale e pittorico di Andrea Volo, che si presta a tutto tranne che a una rapida sintesi, tante sono le sue convessità e concavità. Per questo bisogna percorrerlo come in una prassi labirintica, dove tutto ciò che appare immediato è speculare, riflesso nel senso mentale, mentre il mediato è sensuale. Ciò che resta è soffice, aereo, meditante, nell’ombra o addirittura nel buio, un complesso trionfo. L’itinerario è pirandelliano: un biografico siciliano in Germania e Italia — Palermo, München, Vienna, Roma — con un misto di passione originaria e speculazione teutonica. Attraversa tutte le attualità che, all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, erano ben vive e facevano del crinale tra fine Ottocento e inizio dell’ultimo secolo del millennio un contendere, discutere, amare, molto più di quanto non sembri adesso.

Non c’è dubbio che i vasi comunicanti della sua vita (ma anche dei nostri e di tutti) non ammettano paratie meccaniche, e che la nostra mente sia freudianamente una spugna, almeno finché è morbida: l’uno e l’altro si infiltrano senza complimenti, tra solarità lancinante e crepuscolarità violacea. Poi tutto si irrigidisce, diventa ripetizione e inservibile distruzione del linguaggio — ma di questa non parliamo, non appartiene a questo incessante enigma artistico. Ci interessa la biologia e la biografia che, in Andrea Volo, non conoscono mai occaso: tutto sembra volare in un gran pomeriggio dove i raggi non sono più perpendicolari, e la luce diventa un compendio mirabile di mille tonalità, che regolano la complessità, la solitudine, i pensieri, il nulla. Nella sua opera, come nell’enigmaticità del suo sguardo, regna un grande teatro in cui tanti sono attori e comparse, vicini e lontani nello spazio-tempo, con misure gigantesche, come quelle di Musil, Freud, Schiele, Grosz, con un filo di Maccari. E vigono anche Shahan, Corinth, Artaud, Beckmann, che fanno di lui un fecondo quanto inquietante antagonista e anacronista, di una pittura sottile e bordata ai margini, più vicina alla tradizione fiorentina che a quella tonale veneziana. Lo ritroviamo fortemente in un’essenza di metafisica del disegno, astrale per eccellenza, tendente a una continua scoperta delle leggi del vedere e del pensare, tanto quanto in quelle più intricate dell’innamoramento e della passione, capaci di dare vita, insieme, alla creatività. Questa è, in effetti, un’invenzione traumatica che cresce su di sé: un elogio della solitudine e del silenzio che, quanto più è tale, tanto più è capace di intessere i reali (non la realtà, che è irraggiungibile) con i mitologemi, facendone opere che impegnano cuore e mente per tutta la vita.

KLESSIDRA | A CURA DI FRANCESCO GALLO MAZZEO