Con la morte di Arnaldo Pomodoro si conclude un’era artistica di spessore michelangiolesco, berniniano, canoviano; l’era dei due duetti, quella dei Cascella e dei Pomodoro, un punto di riferimento della stagione degli artisti della scultura italiana del Novecento, annunciata dalla conspiratio oppositorum dei Bistolfi e dei Medardo Rosso, resa palese dalla grandiosa e puntuale firma di Arturo Martini, Francesco Messina, Giacomo Manzù, ma anche dalle spumeggianti figure di Carmelo Cappello, Pietro Consagra, Umberto Mastroianni. E l’elenco potrebbe continuare all’infinito, senza arrestarsi ai nostri coetanei — Nunzio, Mainolfi, e pochi altri — che però sono stelle sfuggite a un universo scomparso. Arnaldo l’ho conosciuto molti decenni fa: cordialità, considerazione, ma mai da parte sua una chimica di condivisione amichevole e simpatetica, come quella scattata con suo fratello Giò, altrettanto grande, tanto che si continua a dire “i Pomodoro”, così come si dice “i Cascella” di Pietro e Andrea. Della marea di opere fatte da A.P., ognuna delle quali racconta una sua storia, mi piace citare l’obelisco commissionato nel 1939 per l’Eur di Roma e dedicato a Guglielmo Marconi, uno per tutti.
Mentre mi voglio soffermare sul mio disvelamento per la sua opera, dato dal progetto per il cimitero di Urbino: un ampliamento del sito storico che, invece di innalzarsi verso l’alto, si infiltrava nella terra con uno squarcio crociale, che confondeva le linee della verticalità e orizzontalità con una metafora spazio/temporale di profetica avvenenza. E poi la Porta Regum del Duomo di Cefalù, del cui comitato scientifico, per un certo tempo, sono stato parte. Una porta per modo di dire — in realtà un trionfo — paragonabile mutatis mutandis a quelle iniziate da Andrea Pisano e terminate dallo stile donatellesco di Ghiberti a Firenze. Uno spettacolo supremo, dato da una mirabile porta autoportante, non invasiva o disturbativa del manufatto storico, con una sfera al centro ispirata a quella posta sul sito tombale di Federico II nel Duomo di Palermo, rappresentante la sua autorità di re di Gerusalemme come erede di Giovanni di Brienne. Risultato? Niente. I cavilli burocratici e pseudo-culturali hanno deciso il restauro lucido, stile calzolaio, del vecchio portone di nessuna importanza storica e stilistica (e dicono loro) per non contaminare l’arte, che è contaminazione per eccellenza — ma evidentemente non è cosa risaputa. A.P. si dolse molto per questo e si irritò. Ed io, con lui!
KLESSIDRA | A CURA DI FRANCESCO GALLO MAZZEO