Ho conosciuto la scrittura a cinque anni, da uditore esterno, nella prima elementare, che frequentavo da non iscritto regolare, in quanto non avevo ancora i sei anni prescritti. Ma ho cominciato a gennaio e quindi con mesi di ritardo dall’inizio delle lezioni e il ritardo si rifletteva in alcune lettere dell’alfabeto che non sapevo scrivere, come la D maiuscola e dato che ogni giorno c’era un Dettato, io scrivevo ettato, senza la D. Cercavo di copiarla dal mio compagno di banco, Trigila Salvatore (prima cognome e poi nome) che faceva scudo con la sua manina, piccola piccola (la ricordo come fosse oggi) e quindi niente da fare, ettato e basta. Non sapevo fare nemmeno il numero otto e facevo due palline, una sopra l’altra e quindi, qui me la cavavo. Non ero bravo in composizione di tema o racconto e scrivevo sempre, poi, poi, poi. Ma poi sono andato meglio e mi sono innamorato della scrittura e dei numeri, anche se tuttora ignoro se la scrittura e i numeri si siano innamorati di me. Ho conosciuto Ben, negli anni Ottanta, durante la mia frequentazione di Tolosa, di Carcassonne e delle regioni dei Pirenei e della Provenza, con tanti viaggi in macchina da e per Milano, dove allora vivevo stabilmente, con ampie soste a Marsiglia. Ben Vautier, celebre artista di Fluxus, mi era stato indicato da Giuseppe Chiari, lo incontrai a Nizza e rimasi subito impigliato nella sua rete di affermazioni e bella calligrafia, che stabiliva un nesso fra la significazione e la designificazione della scrittura, come codice e come apparato grafico, in una logica non logica, che ambiva all’autosignificanza.

In lui c’era, come anche in Chiari, una volontà dadaista di bagnare la parola, il senso, in un grande Arno, fiume linguistico per eccellenza, di incastri e di liberazioni, che non fossero prendibili da nessuno e segnassero un’anarchia di pensiero, fatta di dolcezza, ma non per questo meno inesorabile e decisa, nella contestazione di un feticismo della parola, da troppi ridotta a un’ancella di automatismi alienanti. C’è un’analogia con le parole libere e con i poemi da gettare, ma essa si ferma alla superficie, in quanto vuole andare più a fondo, fondandosi non sull’aperta fase di contestazione, ma sulla mimesi, sul nascondimento formale. C’è una grande angelicità in tutto questo, ma anche una linea di condotta che si sforza di prevedere la capacità di sembrare ed essere, nello stesso tempo. Fingersi innocua ed essere, in essenza, una forza di trasformazione, ideale e reale, servendosi anche di una metafisica proveniente da Magritte e svolazzante tra di noi, come tutto e il contrario di tutto, come arte dell’arte.

KLESSIDRA | A CURA DI FRANCESCO GALLO MAZZEO