I giochi della memoria sono davvero imprevedibili. Di una cosa che non ti appare per anni e anni, che non ti sfiora per la mente, ti basta un attimo e via, un’immagine fuggente, che d’improvviso ti porta ad un presente, di un tempo che immaginavi perduto e che di colpo ti sembra di un eterno presente, che sia stata sempre con te. Una domenica scorsa, sul levare di un pranzo, nella camera buona, mi colpiscono i suoi resti, di una bella bella tavola e nel deserto di un attimo, ecco Daniel Spoerri (1930-2024). L’immediatezza visiva dei suoi sotto plexiglass, segue quella dei tableaux pieges, nell’agone del “Restaurant Spoerri” e della soprastante “Eat Art Gallery”, dove il suo nome dopo essersi tinto con quelli dell’amico comune Pierre Restany, di Yves Klein, Jean Tinguely, Arman, Martial Raysse e mi fermo per carità di lunghezza… si contamina con quelli di Lichtenstein, di Beuys, Niki de Saint Phalle; a testimonianza di una sua infinita curiosità, che gli comporta un grande nomadismo mentale, più che fisico, perché pensa di trovare, sia favole che giocattoli, dappertutto; e quindi ogni estraneità, ogni casualità, l’abbraccia e la strine, come fosse, come fosse un’intimità, una necessità.

Può sembrare dilettantismo, il suo modo d’essere tante cose, da danzatore a coreografo, da pittore ad assemblatore, ma non lo è, perché è il suo modo serio di stare in una poetica corale del concreto, del mutante, che lo porta ad una sospensione del gesto e del gusto, in una eterna forma di eterogenia. Il metamorfico, continuo, è il termine della sua profonda modernità, che è necessariamente post stilistica e portata a contaminare tutto, con una metafisica paradossale, per cui la corporalità, tanto più è insistita, quanto più svapora nel pretesto che ognuno è buono per azionare la ruota del tempo, in inesorabile e destino. Il ready made ha preso, così, un posto centrale nella sua vita artistica, che è il segno e il regno del suo universo contaminate, dove il già fatto, parla una lingua di reificazione e di alienazione, a cui lui oppone il suo secchiello svuota oceano, con forte caparbietà e dolcezza. La sua psicologia artistica è talmente assorbita da una oggettività paradossale, perché tutta mentale, concettuale, tanto più quanto lui sembra volersi assentare dalle sue opere, per incitarle ad animarsi e farsi da se stesse, figlie dell’occasione e del caso. Ma il caso è lui stesso, romeno come Cioran, Ionesco, Eliade, Brancusi; ha dettato pagine artistiche di assoluta ricchezza concettuale, intrise di ironia e di pessimismo cosmico, ma di grande spettacolarità, che si specchiano nella sua natura medianica e duchampiana, che si ritrova nella sua firma del manifesto dei Nouveaux Realistes e nella sua Eat Art, che è quella che mi ha porato a lui, lasciandomi passeggiare nel suo “Giardino di Daniele”, ai piedi del Monte Amiata, della sfolgorante Castel Piano, tutta salsicce e porcini e alla martiniana Arcidosso.

KLESSIDRA | A CURA DI FRANCESCO GALLO MAZZEO