Lo spazio urbano, così come si va determinando sempre più, disordinato, nel proliferare, a tutta macchia, senza accenni di confini, del paesaggio antropizzato e di quello naturale, con città debordanti in megalopoli e in panopoli, nel clima frenetico della consumazione, bulimica, di uso, abuso, degrado, sta diventando una immagine multifocale, dove tutto, il tutto stabilisce un rapporto col niente e ciò che non diventa casa (sempre più) ma anche nel senso complessivo di edificio civile e umano, ufficio, scuola, ospedale, cioè di tutto quello che si frappone tra la vita e la morte, per ora degli individui e un giorno (augurabile lontano, molto lontano) della nostra specie, si mischia con la rapida obsolescenza e degrado industriale e agricolo, nella frenesia di produrre sempre più, con le connesse discariche, che annullano, di fatto, la stessa linea ideale di ogni orizzonte, che mentre il caos delle cose, avanza, si sposta e si rende un paradossale e irraggiungibile plus ultra.

Il problema da affrontare da riaffrontare è quello del circolo vizioso, uso/discarica/degrado e trasformarlo in nuovo uso/riuso/ ripristino, incrementando la circolarità di tutto e preservare l’habitat, non lacerandolo chimicamente, anzi recuperandolo ecologicamente. Mentre scrivo, ho di fronte a me “One” della Listone Giordano, che mi fa da specchio, dove si guarda la catastrofe, possibile, probabile, inevitabile, continuando con l’attuale trend; ma il nostro futuro può ancora essere cambiato e non deve essere per forza catastrofico. Si ipotizza una terzietà, oltre stagnazione e degrado, a partire da un articolato Manifesto del terzo Paesaggio, di Gilles Clement, proprio cominciando delle aree degradate e rifiutate, dove si nota che, animali selvatici e vegetazioni spontanee, proliferano a vista d’occhio, come testimonia l’area e l’aria dannata di Cernobyl, a prefigurazione dell’avanzare di una selva oscurante, il “giorno dopo” di ogni catastrofe. Per noi, il centro deve continuare ad essere l’uomo, per cui ha senso il bello e il brutto, l’ammirare, l’utilizzare, l’inventare, il progettare, il realizzare.

Vedo ogni giorno, le immagini che il James Webb Telescope ci invia, di sorpresa in sorpresa, mentre tutti andiamo immaginando una zona abitabile circumstellare, a partire dalla nostra vicina di casa Proxima Centauri, nella nostra Via Lattea, a finire nei limiti visibili del nostro attuale universo, di 93 miliardi di anni luce. Ma, torniamo al nostro oggi: l’idea utopica di coltivare una nuova idea di città, derubando ad Adamo ed Eva, l’idea di una casa edenica, precedente la mela, non ci è preclusa, ma certamente resa ardua, molto difficile, se non impossibile, da un perdurante ed anzi espansivo, clima, in cui apocalittici e integrati ( per dirla con Umberto Eco) non fanno altro che impedirsi a vicenda, il buono e il bello, mentre sfugge, da tutte le parti, il tempo prezioso del fare, del fare bene, mentre spingono le fratture e le catastrofi vere, di cambiamenti che richiederebbero una capacità un po’ arcadica, un po’ tecnologica, necessariamente razionale, sperabilmente innamorante, che potrebbe ridare ad ogni luogo il proprio nome: mare, terra, fiume, foresta, lago e perfino deserto; ma infine uomo.

KLESSIDRA | A CURA DI FRANCESCO GALLO MAZZEO