É morto da qualche anno, 2006, ma la sua attualità è fantastica, graffiante, sia dal punto di vista delle cose fatte, che da quello delle teoriche e speculative. Insomma, immerso fino in fondo nella modernità fluida, tendente sempre più alla liquidità, il suo fare è sempre stato connesso strettamente col pensare, in quanto, per lui, la gestualità non è mai automatismo, ma sgrammaticatura programmata, che è quella che lo porta all’elogio dello scarabocchio, inteso come strumento di analisi di sé e degli altri, quindi alla concezione di una forma liberatoria, di inibizioni, di frustrazioni, divenienti così uno strumento sui generis di terapia mentale. Perché, sosteneva che, se l’arte può ammalare, come testimoniato dalla sindrome di Stendhal, essa può anche guarire, dando così origine ai tanti percorsi sperimentali, formativi e attuativi di “arte terapia”, che, anche a mio avviso, devono essere maggiormente culturalizzati con una specificità psicologica, di quella che lui chiamava psiconologia, una scienza tutta da scrivere e sistematizzare, in quegli ambiti in cui il disagio mentale sia frutto di solitudine, di sindrome saturnina e non dovuto a fattori distorcenti e patologici dell’apparato celebrale, che è il luogo dove si situa la mente. L’incipit in questo campo aperto, di Nato Frascà, è una sintesi mirabile di invenzione e scoperta, in cui la manualità è l’espressione facturale di una complessità, a vari gradi di fisiologia, a vari gradi di patologia, con un confine mobile e poroso, di reciproca scambievolezza, in andata e ritorno